Oizys e Momo
- Alla scoperta del mito
- 11 apr
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Nella mitologia greca Oyzis era la divinità della miseria (che diventò poi il suo nome presso i Romani) e della sventura, oltre che spirito del lutto, dell'ansia e della depressione.
Combattute le ipotesi sulla sua nascita, con un solo elemento comune nelle varie versioni, ossia che sia figlia di Nyx, dea della notte.
Secondo Esiodo infatti Nyx avrebbe dato alla luze Oizys e il suo gemello Momo da sola, mentre per Cicerone la dea della notte li avrebbe concepiti con Erebo, personificazione dell'oscurità.
Oyzis è quindi una divinità primordiale di seconda generazione e a differenza degli altri figli di Nyx, che molto spesso aiutavano gli umani, era vista come un'entità malevola pronta a danneggiare i mortali.
Era considerata anche la divinità dei veleni, ed era spesso rappresentata con le vesti lacere e le guance graffiate e sporche di sangue.
E leggenda vuole che Eracle pose Oizys sul suo scudo, così l'ultima immagine che i suoi nemici avessero avuto prima di morire sarebbe stata proprio la dea della Miseria.
Discorso diverso invece per il suo gemello Momo, dio della satira e degli sberleffi.
Ben noto per il suo atteggiamento supponente, venne scacciato dall'Olimpo colpevole di trovare difetti in ogni cosa creata dagli dèi.
Secondo Momo infatti tutto era fallace e aveva anche un solo minimo difetto, tranne un essere: Afrodite.
Tuttavia, non perdeva occasione di lamentarsi del rumore che la dea faceva camminando con i suoi sandali.
Rappresentato molto spesso con in mano una maschera e un bastone, il mito più famoso che lo vede protagonista è quello secondo il quale un giorno fu invitato da Zeus, Atena e Prometeo a far da giudice per le loro invenzioni.
Zeus presentò il toro, Atena la casa e Prometeo l'uomo.
Ovviamente Momo si rifiutò di proclamare un vincitore, dal momento che considerava tutte le creazioni piene di difetti.
Per lui il toro aveva infatti il problema di avere le corna ai lati della testa e non al centro, rendendo più difficile colpire i nemici; la casa non era trasportabile; e l'uomo era impossibilitato a vedere nel proprio cuore e a capire a pieno i suoi sentimenti.
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